Maggio 1985: la bella e la bestia

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Maggio 1985: la bella e la bestia

di Alfredo Sanapo

La bella

06/01/1985-27/05/1985

Era iniziata l’ultima parte della stagione calcistica 1984-85. La Serie A era considerata il campionato più bello del mondo. La Nazionale di Enzo Bearzotil vecio“, fallita la qualificazione agli Europei, era Campione del Mondo in carica e ambiva a bissare il successo e giocava le amichevoli di preparazione a Mexico ’86 con la dicitura “Italia Sperimentale” indicativa della fine di un ciclo. In quegli anni era ancora possibile il sogno: si realizzò quello dell’Hellas Verona, tre anni prima militante nel torneo cadetto, grazie al pragmatismo di Osvaldo Bagnoli, la classe di Roberto Tricella, le parate goffe di Claudio Garella, la sapienza tattica di Antonio Di Gennaro e la potenza di Preben Larsen-Elkjaer il cui motore era alimentato dalle bevute compulsive del sabato sera; si avverò anche la prima promozione assoluta dell’US Lecce di Franco Jurlano nella massima serie.

Il calcio dell’epoca era un ottimo insegnante di geografia. Ci fece scoprire che esisteva un paese chiamato Frattamaggiore (NA) che ha dato i natali all’arbitro Pezzella, che esistevano due Ascoli, uno l’anonimo Ascoli Satriano (FG), l’altro Ascoli Piceno, un capoluogo di provincia di cui era originario l’arbitro Cinciripini e che aveva una discreta squadra di calcio le cui imprese erano narrate da Tonino Carino. Si imparava che la squadra di Bergamo si chiamava Atalanta, una squadra di Genova era la Sampdoria, una di Torino la Juventus, una di Milano l’Internazionale. Si apprendeva che gli irpini erano di Avellino, i lariani di Como, i partenopei di Napoli, i capitolini di Roma. Capivamo che alcune squadre, invece di un nome, erano contrassegnate dall’aggettivo di provenienza: la Cremonese, la Fiorentina, l’Udinese. Grazie all’austriaco Schachner del Torino ci rendevamo conto che l’Austria aveva una rognosa squadra di calcio, mentre l’Australia era composta da autentiche schiappe.

Il calcio era un buon insegnante di storia. Dal mito del “Grande Torino” e le gesta di Valentino Mazzola a quello dei gol in bianco e nero di Pelé, dal rosario della formazione dell’Inter del “magoHelenio Herrera alle prodezze di José Altafini, Omar Sivori, Pierino Prati e Gianni Rivera e del sinistro di Gigi Rivarombo di tuono“. Mentre noi guardavamo Zico, Maradona e Platini, i nostri genitori parlavano di quegli ex calciatori non tanto gloriosi divenuti allenatori: Luis Vinicio, Giancarlo De Sisti, Giovanni Trapattoni, Nils Liedholm e Gigi Radice.

Il calcio era un buon insegnante di italiano. Potevamo finalmente capire che Mark Hatley segnava dopo quattro mesi di digiuno non perché fosse un morto di fame. Che l’uscita dell’estremo difensore o l’entrata in scivolata non erano gli opposti di un concetto molto caro a un portiere che peraltro non è solo un lavoro d’albergo. Che la Veronica non era solo una delle pie donne che pulivano il volto di Gesù sporco di sudore e sangue mentre portava la croce e che un sandwich era anche un tramezzino. Che la Cremonese non era una dolce maionese né il gusto di un gelato. Eravamo troppo piccoli per comprendere che un fallo era un attributo destinato alla riproduzione.

Il calcio era un ottimo divulgatore di etnografia. Capivamo che Cerezo, Falcão, Junior, Socrates e Zico giocavano al pallone ballando la samba perché brasiliani, Passarella, Bertoni, Diaz e Maradona a passo di tango perché argentini. Comprendevamo che non bastava la tecnica e la tattica, ma anche la forza fisica sia quella dell’orgoglio teutonico di Briegel e Rumenigge, sia quella presuntuosa anglosassone di Wilkins e Souness, sia quella glaciale vichinga di Stromberg e Corneliusson, sia quella pragmatica slava di Zmuda e Boniek.

Il calcio insegnava la politica tramite il meccanismo dell’appartenenza ad un gruppo. Non pochi erano gli “uomini bandiera”, nei secoli fedeli o coerenti fino all’osso: Giancarlo Antognoni della Fiorentina, Bruno Conti della Roma, Gaetano Scirea della Juve, Franco Baresi del Milan, Sandro Altobelli (“spillo“) dell’Inter, Renato Zaccarelli del Torino e Giuseppe Bruscolotti del Napoli. Ma per fare la squadra servono dei “tecnici” con le loro specializzazioni per i quali è più determinante il servizio dell’indirizzo: Giuliano Terraneo per le sue parate miracolose, Aldo Serena per i colpi di testa, Piero Fanna per la velocità, Liam Brady per i calci piazzati e Dirceu per i tiri impossibili dalla distanza cambiavano squadra ogni anno pur mantenendo alti gli standard dei loro talenti. Si apprendeva l’importanza del “rinnovamento” dato dai giovani emergenti Nando De Napoli dell’Avellino, Giuseppe Gianniniil principe” della Roma, Roberto Donadoni dell’Atalanta, Gianluca Vialli della Sampdoria e Stefano Borgonovo del Como.

Il calcio era una festa alla quale le famiglie dedicavano l’intera giornata magari andando allo stadio. Il calcio era una messa domenicale scandite dalla radio con le voci di Enrico Ameri, Sandro Ciotti e Alfredo Provenzali di Tutto il calcio minuto per minuto, dalla prima visione dei goal alle 18,10 su Raiuno con Novantesimo minuto di Paolo Valenti o alle 20 su Raidue con Domenica Sprint e dalla discussione alla Domenica Sportiva con la moviola di Carlo Sassi su Raiuno. E continuava il giorno dopo col Processo del lunedì di Aldo Biscardi su Raitre. Durante la settimana, nei bar i perdigiorno parlavano solo di pallone difendendo la loro squadra a suon di sfottò.

La bestia

28/05/1985-30/05/1985

Quell’anno la Juventus disputava la Coppa dei Campioni nel tentativo di replicare il successo dell’anno prima in Coppa delle Coppe e vendicare la Roma battuta in finale dal fortissimo Liverpool che si qualificò di nuovo per la finale. Lo stesso Liverpool battuto 2-0 in Supercoppa il 16 gennaio 1985 con doppietta di Boniek, il “bello di notte“. La Juve giungeva in finale superando nell’ordine i finlandesi dell’Ilves Tampere, gli svizzeri del Grasshoppers, i cecoslovacchi dello Sparta Praga e i francesi del Bordeaux per ritrovare di fronte i “Reds“.

Finale fissata il 29 maggio 1985 a Bruxelles, StadioHeysel“, ore 20,15. Il giorno prima i tifosi inglesi, giunti in Belgio in traghetto al porto di Ostenda, appena sbarcati cominciarono a bere birra come dannati. Arrivati in pullman o treno nella capitale belga ubriachi, lasciavano il segno del proprio passaggio con atti di vandalismo e violenza non risparmiando nemmeno la storica Grand-Place.

La finale era molto attesa a casa: la mamma preparava i toast da gustare durante la partita. Accesi la TV per le ultime e vidi un collegamento tra Gianfranco De Laurentiis da studio e Bruno Pizzul dallo stadio che parlavano di scontri violenti sugli spalti. Gli hooligans del Liverpool avevano divelto delle reti metalliche e invaso l’attiguo settore Z, riservato ai tifosi neutrali (italiani e irlandesi) i quali, caricati a più ondate, per evitare di essere travolti, si buttarono dal parapetto: la calca fece crollare un muretto che causò 39 morti (32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e un irlandese) e oltre 600 feriti. La polizia belga, non capendo la situazione, prendeva a manganellate i tifosi entrati in campo per sottrarsi alle violenze. Le frange più estreme dei tifosi bianconeri invasero il campo per rivalsa e cominciò una battaglia che durò mezz’ora in attesa che arrivassero rinforzi. I poliziotti giunti, preparati più ad una parata militare a cavallo che ad un assetto anti-sommossa, trovarono la situazione fuori controllo. Ci volle un’ora e mezzo per ristabilire la situazione e, con lo stupore di tutti, la partita venne giocata per motivi di ordine pubblico in un’atmosfera surreale. Non si capiva se la partita fosse valida per l’assegnazione del titolo. Io avevo 9 anni e vidi solo il primo tempo perché la regola di famiglia era di coricarsi alle 22,30. Andai a letto senza protestare, credendo che la partita andasse rigiocata, ma le squadre si erano messe d’accordo con l’UEFA a giocare per il trofeo. Il giorno dopo a scuola i miei compagni juventini gioivano per la vittoria. Non nego la delusione di aver perso una finale alla quale ci tenevo tantissimo. Da grande capii che la vera bestia non era quella, ma era morire per una partita di calcio e fare andare avanti gli eventi a tutti i costi, senza un briciolo di umanità perché “The show must go on”.

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Redazione

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  1. Hai ragione Alfredo condivido pienamente quanto scritto e quanto vissuto...abbiamo partecipato ad una serata che rimarrà nella coscienza di molti…

  2. Bell'articolo complimenti...mi piace conoscere altre realtà,e qui sono descritte nel modo giusto...p.s. noi italiani non abbiamo bei ricordi del Belgio..…