Nessuno mi può giudicare

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Nessuno mi può giudicare

di Stefania Borrello – – –

In queste settimane abbiamo assistito alla protesta, che ha avuto grande risonanza mediatica, di qualche ragazzo che ha rifiutato di sostenere la prova orale dell’esame di maturità. Il timore di un effetto emulazione ha portato il ministro Valditara ad annunciare l’intenzione di punire questa forma di protesta, in futuro, con la bocciatura. Ad oggi, il punteggio accumulato fino all’ultima prova consente la promozione automatica.

La motivazione di questa protesta è molto dibattuta in questi giorni, tanto da portare l’associazione di categoria dei dirigenti scolastici a prendere posizione sulla necessità di accogliere queste istanze, con qualche distinguo. Dopo aver accumulato punti sufficienti per garantirsi la promozione, si rifiuta di sostenere l’orale perché gli esami e la scuola in generale promuovono la competitività, a scapito dell’empatia. Aboliamo i voti, aboliamo la quantificazione delle conoscenze e delle competenze, resti solo l’osservazione benevola delle personalità in crescita.

Chi ha terminato la scuola da qualche decennio, rischiando l’effetto Matusalemme, si trova ad osservare un approccio alla formazione, all’istituzione scolastica, al mondo, lontanissimo dalla propria esperienza. Quello che colpisce, nelle parole di questi ragazzi, è la loro percezione di una totale inutilità della valutazione.

In effetti, un tempo non molto lontano, il voto della maturità poteva fare la differenza nella vita di uno studente, garantendogli l’accesso a percorsi universitari che non avrebbe potuto affrontare economicamente, grazie a borse di studio, posti letto e agevolazioni importanti.  Era piuttosto comune che oltre alla maturità classica o scientifica si prendesse da privatisti il diploma del magistrale, che dava accesso all’insegnamento nelle scuole materne ed elementari, perché non si poteva sapere mai, magari un giorno sarebbe servito. Il diploma era un titolo e seguiva a un esame ufficiale. Anche oggi il diploma è un titolo, l’esame con la commissione e i docenti esterni ha ancora il senso di certificare il percorso scolastico, ma questi ragazzi non vedono questa cosa.

C’è stato un tempo in cui un buon voto di diploma poteva rappresentare il pulsante per chiamare un ascensore sociale importante e che forse un po’ funzionava, magari non per tutti, ma per molti sì.

Come riporta il Corriere della Sera, a lanciare l’allarme su un fenomeno preoccupante degli ultimi anni è Alessandro Rosina, demografo e docente di Statistica sociale all’Università cattolica di Milano e coordinatore dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo: in Italia, nel 2024, i NEET, giovani che non studiano e non lavorano, sono stati oltre due milioni. Nella fascia tra i quindici e i ventinove anni, rappresentano il 15%, contro la media dell’11% dell’Unione Europea.

Oltre due milioni di giovani non partecipano alla crescita economica e sociale del Paese, non portano il loro contributo di talenti, curiosità, espressione di sé. Per questi giovani, sopra i trenta anni in maggioranza donne, non solo non esiste più l’ascensore sociale, ma non c’è nemmeno il pianerottolo.

Negli ultimi giorni, le maggiori testate del Paese hanno ripreso la lettera, pubblicata dal Nuovo Quotidiano di Puglia, della maturanda di Nardò che accusava la presidente di commissione di esame di averla deliberatamente umiliata. Anche questo caso ha scatenato confronti accesi, per un tema evidentemente molto sentito e che riporta a galla ricordi ed esperienze personali che toccano corde sensibili in molti di noi.

Al di là delle valutazioni di ciascuno sulla correttezza e l’opportunità dell’inoltrare tale lettera e, da parte dei giornali, di pubblicare e rilanciare lo sfogo di una ragazza sicuramente scossa, che ha dato in pasto a qualche migliaio di giudizi la professoressa e sé stessa, possiamo leggere nelle parole della studentessa una percezione evidentemente largamente condivisa. L’esame di maturità deve essere una festa, un ricordo irripetibile e quindi necessariamente piacevole, gioioso, immaginiamo instagrammabile. Tutto tranne quello che è: un esame che serve a conseguire un titolo. Ancora, gli esaminatori devono mostrare empatia.

I ragazzi sono materiale fragile, da maneggiare con cura. Si innamorano delle loro intuizioni, delle loro idee, a volte balzane. A volte affrontano lo studio con le opinioni. Incontrano insegnanti che possono minare la loro autostima, che possono determinarne le scelte, portarli a credersi incapaci in una materia o nell’altra.

E però, sorprendentemente, può capitare che gli incontri più importanti, quelli che accendono le passioni  più travolgenti e durature, avvengano con quei docenti più bruschi, che non fanno sconti, che mettono gli alunni davanti alle loro contraddizioni, che li portano a confrontarsi con quello di cui è più difficile innamorarsi: il rigore della disciplina, la grammatica del diritto che non prevede opinioni, la sospensione del giudizio nella consultazione delle fonti della storia. I docenti che amano talmente quello che insegnano, da non permettere a nessun alunno la minima approssimazione, superficialità, grossolanità.

Quelli che tengono a uno studente di oggi per farlo divenire un buon cittadino o un professionista responsabile domani.

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